Datemi dei piccioni e li trasformerò in zuppa, anzi in sópa coàda, una preparazione tipica della cucina trevigiana.
Perfetto nella stagione invernale questo piatto si prepara con la carne di piccione disossato, sfilacciato, alternandola con pane raffermo, bagnato con brodo bollente ed infine cotto in forno.
Una specie di pasticcio dalla consistenza asciutta, infatti solitamente viene accompagnato da una tazza di brodo bollente.
La vera storia della Sòpa Coàda di Gianpiero Rorato.
L’anziano professore, cultore di rarità gastronomiche, era arrivato in treno da Milano fino a Treviso per conoscere la storia di un piatto gustato molti anni prima proprio nel capoluogo della Marca e mai più ritrovato.
Aveva consultato anche alcuni volumi dedicati alla cucina di quella provincia e aveva trovato la ricetta, ma non la storia. Sperava di trovare qualche notizia in internet, ma oltre a tante citazioni del piatto non c’era proprio nulla.
Così un bel giorno decise di andare alla fonte, cioè dove quel piatto è ancora in auge, sperando poi, camminando a ritroso, di salire fino alla sua origine.
“Il piatto che cerchi, gli aveva detto un gastronomo milanese, addentro alle tradizioni culinarie italiane, è piuttosto raro, non merita che tu perda tempo.”
“Ma c’è, gli aveva risposto il professore, e proprio perché raro deve avere una sua storia.”
Tempo addietro, in una vecchia rivista capitatagli tra le mani, aveva letto un articolo scritto da un gastronomo trevigiano, Giuseppe Maffioli, nel quale si affermava che sull’origine della sòpa coàda «c’è un mistero non ancora svelato: di tale zuppa, scriveva lo studioso di cose gastronomiche, non si trova traccia nelle liste delle vivande delle osterie, delle trattorie e dei ristoranti di Treviso e di ogni altra città del Veneto, se non a partire dai giorni dell’avvenuta unità d’Italia, mentre di zuppe “coade” o “quatte” si ha cenno nella tradizione gastronomica sarda, e specialmente nella parte nordorientali dell’isola, in un territorio corrispondente a un di presso alla Gallura, sicché tale zuppa viene chiamata anche “zuppa gallurese” e si compone di brodo ristretto di carni miste, di pane e di formaggio in abbondanza, e “quata” e le altre denominazioni analoghe non alludono a nessun covare, quanto piuttosto a “nascondere”, come di zuppa che sotto gli strati di pane accoglie alcunché di più sostanzioso e proteico.»
Queste righe riguardanti il piatto sul quale stava indagando da tempo, la sòpa coàda appunto, l’avevano particolarmente colpito, perché, oltre che nel Trevigiano, il piatto sarebbe esistito anche in Sardegna.
Poco dopo il professore, cultore, come amava definirsi, di archeologia gastronomica, ebbe l’opportunità di un viaggio in Sardegna e compì delle verifiche sul posto.
Oltre che in Gallura, dove aveva avuto alcune notizie di questo piatto tradizionale, era stato nell’Ogliastra, dove un vecchio cuoco in pensione gli aveva confermato l’esistenza anche in quella zona del piatto, ora piuttosto in disuso, realizzato con brodo, pane, formaggio pecorino e polpine di uccelli che potevano essere merli, tordi o grive, a seconda della disponibilità.
“Gli uccelli, gli disse, una volta spennati, mondati e cotti, vengono riuniti in taccule, cioè in mazzi da otto a dodici e avvolti in ramoscelli di mirto, quindi utilizzati, soprattutto in passato, per preparare una zuppa molto interessante. Ma sul nome proposto, cioè suppa quatta non ne aveva mai sentito parlare.”
Al professore era comunque interessato il modo dei cacciatori del posto di legare gli uccelli con rametti di mirto che dà loro un particolare profumo, e sapeva, dalle sue letture, che quel modo di legare gli uccelletti era già in voga ai tempi dell’antica Roma, come aveva testimoniato Marcio Porcio Catone due secoli prima di Cristo nel suo De Agricoltura, un trattato che il professore ben conosceva.
Nulla di strano, aveva commentato fra sé ascoltando il vecchio cuoco; dove nel corso del tempo è stato possibile trasmettere da una generazione all’altra i piatti tradizionali o le tecniche di cottura o l’uso di determinati ingredienti facilmente reperibili nel territorio, senza che siano intervenute per un qualche imprevisto delle modifiche o siano arrivate delle infiltrazioni dall’esterno, è possibile che siano rimaste vive le ricette più antiche, se capaci di rispondere, nelle varie epoche, anche al gusto della gente. E l’uso del mirto in cucina è quanto mai felice, per cui al professore parve naturale che si continuasse a cuocere come ai tempi di Catone.
La stessa cosa l’aveva comunque già vista in altre aree dell’Italia mediterranea e insulare.
Dopo il viaggio in Sardegna era passato qualche anno prima che il professore arrivasse a Treviso.
Molto tempo dopo il viaggio in Sardegna, dunque, approfittando di un tempo asciutto e assolato anche se freddo, in un sabato di fine febbraio, era sceso alla stazione ferroviaria di Treviso.
Assunte le informazioni necessarie da un vigile urbano, s’era diretto senza difficoltà in centro città, in una vecchia osteria con cucina che gli era stata indicata e dove s’era fatto precedere da una telefonata specificando quel che desiderava trovare.
L’aveva accolto una signora anziana, gentilissima, che si dichiarò onorata di ricevere un ospite arrivato nientemeno da Milano per gustare uno dei piatti tipici della città.
Poco dopo essersi accomodato, fu la stessa signora ad avvicinarsi al suo tavolo con una zuppiera fumante, dalla quale trasferì in una bella ciotola la celebre sòpa coàda.
“E come la fate?” chiese il professore quando l’ebbe gustata.
Noi prepariamo zuppiere di sòpa coàda per circa cinque-sei persone, per cui mi servono per ogni zuppiera che preparo cinque-sei piccioni novelli, dell’ottimo brodo di carne, del pane raffermo, olio extravergine di oliva, un cuore di sedano, del formaggio grana grattugiato e sale.
Ma lei vuole la ricetta?” gli chiese.
“Se è possibile”, azzardò il professore, che aveva gustato con vero piacere quel piatto per lui del tutto nuovo.
“E non per rifarla a Milano, ma per sapere qualcosa di più di questo vostro piatto davvero straordinario.”
“Può dirlo, è proprio una meraviglia, disse orgogliosa la signora, ed è anche un piatto storico.
Dunque, per prima cosa preparo i piccioni, li spenno e li mondo bene, li taglio in quarti e li faccio rosolare in olio e burro con un piccolo trito di sedano. Come risultano cotti li lascio raffreddare e intanto controllo il brodo messo in precedenza sul fuoco e preparato con carne di manzo e con sedano, carota e cipolla.
Il brodo deve essere particolarmente buono e lo lascio ridurre, così diventa ancora migliore.
Poi, quando i piccioni sono abbastanza freddi, li disosso e getto le ossa e la pelle nella pentola del brodo che riporto a bollore per una decina di minuti così si insaporisce ulteriormente, poi filtro il brodo con un setaccio sottile e lo tengo in caldo.
Prendo allora una tortiera, la imburro e dispongo sul fondo uno strato di fette di pane raffermo, alte circa un centimetro, bagno questo pane con un po’ di brodo, vi spruzzo sopra del formaggio grattugiato, quindi dei pezzi piuttosto minuscoli di carne di piccione, poi ancora pane, brodo e carne fino a esaurimento della carne.
Copro alla fine col pane, irroro con brodo bollente e metto in forno a temperatura sui 90-95 gradi per almeno due ore, aggiungendo ogni tanto, se serve, qualche mestolino di brodo.
Tutto qui.”
“Ci vuole del tempo, gli rispose con una cantilena musicale che affascinò il professore, ma l’esecuzione non è poi tanto complessa.
“Davvero deliziosa”, disse il professore e la signora gli chiese se ne voleva ancora. “Grazie, disse, un altro po’ la magio proprio volentieri.” E mentre gli riempiva nuovamente il piatto il professore le domandò da quanto tempo fosse in quel suo ristorante.
“Mio caro, gli rispose la donna, io sono nata qui dentro, sono anziana, non ho eredi e mi dispiace. Sono alla quarta generazione: questa trattoria l’ha aperta mio bisnonno oltre un secolo fa e da quando sono nata sono sempre stata qua dentro.”
“E chi fa da mangiare?”
“Io e una mia cuoca, anziana anche lei.”
“E che piatti prepara?”
“Quelli nostri, signore! Noi facciamo la vera cucina trevigiana, l’abbiamo sempre fatta, non creda che qui si facciano foresterie senza senso.
Proprio no!
Risottino di stagione, sempre, l’anatra e l’oca in autunno, la faraona con la salsa peverada dall’autunno alla primavera, il radicchio d’inverno, asparagi ed erbine di campo a primavera, poi sempre animali da cortile, pollastri al forno con le patate, dei buoni conigli in vari modi, soppresse e salami di casa, funghi in stagione e tante verdure dei nostri orti. Questo facciamo.”
“E la sòpa coàda?”
“La facciamo da novembre a febbraio-marzo, perché è un piatto invernale.”
“E da quando la fa?”
“Da sempre, signore.
La faceva mia nonna e credo anche mia bisnonna.
Quand’ero piccola vedevo mia nonna che la preparava dall’autunno alla fine dell’inverno e nei giorni di mercato, il martedì e il sabato.
La nostra trattoria era sempre piena di gente, commercianti, mediatori e signorotti che arrivavano dalla provincia.
A quei tempi la nostra era una semplice osteria, ma non mancavano mai il baccalà, i fagioli con la cipolla, le sarde in saòr, col freddo la sòpa coàda e poi minestre di fagioli e zuppe di verdure in estate.
Altri tempi, signore mio, altri tempi.
Ma non mi lamento.
La mia clientela non mi ha mai abbandonato.”
“Ci credo, disse il professore che aveva terminato il secondo piatto, se li tratta tutti così non c’è pericolo che l’abbandonino.
E questo è proprio un piatto trevigiano?” gli chiese poi.
“Se qui lo facciamo da almeno un secolo, per quanto ne so, credo proprio che sia un nostro piatto.
Ma per il resto non ho mai approfondito l’argomento.
Sa, aggiunse la donna, io rifaccio i piatti che facevano mia madre e mia nonna e credo anche la bisnonna.
Oggi la gente mangia meno di una volta, vuole piatti meno grassi, ma da me si mangia come un secolo fa.
I clienti sono contenti e di più non mi interessa sapere.”
“E la si fa anche in altre parti?”
“Sicuro, signore.
Qui a Treviso la trova in diverse trattorie e anche nei ristoranti.
In questi pero, solo su ordinazione, ma da me d’inverno c’è sempre una zuppiera pronta.
Sa, c’è qualche trevigiano che non ha mai gestito trattorie che sta dicendo in giro che l’ha inventata sua madre o sua nonna, un giorno che in casa avevano ospiti!
Ma non è vero, è una bella favola. Questo è un piatto tipico da trattoria, perché ci vuol tempo a prepararlo e bisogna cominciare il giorno prima.”
“Ma si fa solo qui a Treviso o anche in altre parti?” chiese ancora il professore.
“Caro signore, questo piatto qui, con i piccioni, lo facciamo solo a Treviso.
In campagna lo fanno anche con le galline, ma è un’altra cosa.”
“E dove, in campagna?”
“Ho letto sul giornale che in un paese di là del Piave, a Motta, la fanno con le galline, ma io non ci sono mai andata in quel paese, non so neppure dove sia.”
Un buon caffè, un conto molto contenuto e il professore andò nell’albergo che aveva prenotato, prima di compiere un giro turistico per la città. Ma voleva anche andare a Motta e più tardi avrebbe chiesto le necessarie informazioni. In albergo il portiere molto premuroso gli indicò i due principali ristoranti della cittadina, lontana più di trenta chilometri da Treviso ma facilmente raggiungibile sia in treno che in autocorriera e gli diede anche i numeri telefonici dei due ristoranti. In camera si appese al telefono e così seppe che in uno dei due ristoranti locali l’indomani poteva trovare una buona sòpa coàda, quella con carne di gallina e pollo giovane e ruspante e prese subito appuntamento per il pranzo di mezzogiorno, chiedendo informazioni per arrivarci.
Il giorno dopo in poco più di mezz’ora di treno giunse a Motta di Livenza e, seguendo le indicazioni, in pochi minuti fu nel ristorante che si trovava appena dopo un ponte sul vecchio ramo della Livenza. Un odore di cose buone s’espandeva per la sala creando buonumore in alcuni tavoli già occupati da belle brigate familiari. Fu accomodato quasi di fronte alla cucina e il profumo che s’espandeva da lì era proprio accattivante.
Non volle antipasti, ma subito la sòpa coàda.
Anche qui una signora, molto più giovane rispetto a quella dell’osteria trevigiana, ma ugualmente gentile, arrivò con una terrina caldissima che appoggio su un tavolinetto e gli versò quella grazia di Dio, fumante e saporosa e gli mise sul tavolo una bottiglie di Merlot. Era buona quella sòpa coàda, come era buona! e il vino si sposava a meraviglia e mentre la assaporava gli sembrava ancora migliore di quella coi piccioni. Mentre stava terminando il piatto la signora gli si avvicinò di nuovo e senza chiedergli gliene versò ancora. Due ragazze, una doveva essere la figlia della signora, servivano intanto gli altri tavoli e il professore si guardava attorno compiaciuto, mettendo in cuor suo a confronto la semplicità e la genuinità dei piatti che stava gustando in quel suo viaggio in terra veneta con quelli dei ristoranti milanesi, spesso più inclini alle forme e ai colori che alla sostanza. A Milano, si diceva tra sé il professore, si mangiano degli ottimi risotti tradizionali, degli ossibuchi straordinari, ma quando si esce dalla tradizione è abbastanza facile trovare più apparenza che sostanza, ma forse sono troppo severo, si disse subito, non dimenticando che gli piaceva essere definito un archeologo della cucina, per cui era piuttosto contrario alle modernità, specie d’importazione.
“Le è piaciuta?” chiese la signora come ebbe pulito anche il secondo piatto.
“Davvero straordinaria, esclamò. Ma come lo fate questo piatto?”
“La sòpa coàda la faccio io personalmente, disse la signora e il procedimento è lungo ma abbastanza semplice. Faccio dunque rosolare nell’olio un trito di carota, sedano e cipolla e come imbiondisce metto a rosolare le parti nobili della gallina giovane e, a volte, anche di un bel pollo e, se lo trovo, di un cappone, assolutamente ruspanti, che acquisto in una casa di contadini. I polli e le galline degli allevamenti intensivi non vanno proprio bene, anzi, rovinano il piatto.
Quando la carne prende colore, la bagno con un bicchiere di vino bianco secco e, come questo evapora, la insaporisco di sale e pepe e la porto lentamente a cottura, tenendola inumidita con del brodo e quando è cotta la lascio raffreddare. Ma intanto ho preparato un buon brodo, mettendo in una pentola, a freddo, abbondante acqua, le verdure di rito, cioè sedano, carota e cipolla, le parti non usate del pollo, mezzo chilogrammo di carne di manzo da brodo, un bell’osso spugnoso e un pugnettino di sale. Faccio procedere bene la cottura e quando il brodo è pronto lo lascio raffreddare e lo sgrasso accuratamente. Lo riporto poi a bollore, così si riduce e intanto prendo i pezzi di pollo, levo la polpa dalle ossa e rimetto le ossa nella casseruola dove ho cotto il pollo e verso il brodo in questa casseruola tenendolo sempre a bollore, in modo che continui a ridursi e si arricchisca anche delle sostanze cedute dalle ossa.
Preparo a questo punto delle fette di pane raffermo che faccio saltare velocemente con del burro, così diventano più friabili. Prendo una teglia di coccio o una zuppiera dalla base piatta e dispongo sul fondo uno strato compatto di fette di pane, sopra vi metto uno strato di pezzi di carne che copro con abbondante formaggio grana grattugiato, poi ancora pane, carne, formaggio e pane, badando che alla fine gli strati di pane risultino dispari, tre o cinque. Filtro allora il brodo e lo verso bollente sugli strati in modo che risultino tutti ben imbevuti, stando attenta che il brodo non li copra eccessivamente.
Pongo quindi la zuppiera in forno, a fuoco basso, lasciandola covare per non meno di due ore, poi, se non è ancora l’ora di pranzo, la tengo in caldo sopra la piastra della cucina. Se fosse necessario, ogni tanto aggiungo del brodo. Dieci minuti prima di servire, cospargo la superficie con altro formaggio e fiocchetti di burro, rimetto in forno per alcuni minuti e alzo il calore di modo che il burro e il formaggio si sciolgano e la crosta assuma un bel colore dorato. Come ha visto prima, signore, la sòpa coàda va servita come fosse un pasticcio molto morbido, assolutamente non asciutta ma non troppo brodosa, semmai con una tazza di brodo bollente a parte. È così che la preparo io, come faceva mia suocera e prima ancora la sua dal 1920, quando la nostra famiglia ha acquistato questo ristorante.”
“Stupenda, davvero stupenda.” Il professore era rimasto affascinato dal racconto e aveva scoperto che in quell’ambiente, come a Treviso, il piatto veniva preparato, a memoria d’uomo, quasi dall’inizio del Novecento.
“E saprebbe anche dirmi se è un piatto tipico locale e da quando si prepara in questa città?”
“Proprio nei giorni scorsi, disse la signora, è uscito un articolo sul quotidiano locale, a firma di un noto esperto di storia gastronomica, che parla di questo piatto. Dice che la sòpa coàda è un piatto medioevale, tipico delle case più signorili e che la prima ricetta si trova nel libro di un certo Cristoforo di Messisbugo e risale alla prima metà del Cinquecento.”
“Grazie, signora, c’è l’ho quel ricettario. Ecco la notizia che cercavo.” Il professore si concesse poi un buon dolce di casa e, concluso il pranzo, se ne uscì allegro dal ristorante, anche perché ancora una volta il conto era stato abbastanza contenuto, ben lontano dai costi milanesi.
Mentre in treno tornava a Treviso diede un’occhiata al giornale che aveva acquistato il mattino e quasi non s’accorse d’aver conclusi il viaggio.
Rientrato a Milano si mise a consultare i ricettari più antichi e, come già sapeva, trovò che nel Medioevo le zuppe erano molto diffuse. Già nell’Anonimo Veneziano, nell’Anonimo Toscano e nel “Libro de arte coquinaria” del Maestro Martino da Como trovò delle zuppe, come nell’umanista Bartolomeo Sacchi detto il Platina, l’autore del De honesta voluptate et valetudine, che è stato il primo libro di cucina divulgato a stampa. D’altronde il Platina era un autorevole uomo di cultura, ben inserito negli ambienti romani e il suo saggio, oltre a basarsi sul ricettario del Maestro Martino, dava tutta una serie di informazioni che aiutano a capire la cultura e la mentalità del suo tempo. Ma in nessuno di costoro il professore aveva trovato tracce precise della sòpa coàda. Era pur vero che la signora di Motta gli aveva parlato del Messisbugo, ma il professore aveva voluto dare un’occhiata anche agli autori precedenti. Sapeva bene chi era Cristoforo di Messisbugo, noto con questo nome anche se non se ne conosce la vera origine: nella prima metà del Cinquecento egli operava a Ferrara, alla corte degli Estensi, dei quali fu il grande maestro di cerimonie, oltre che consulente gastronomico col titolo di scalco ducale.
Ma non era soltanto un ascoltato direttore di mensa, un raffinato gourmet e il gran regista dei pranzi e cerimonie di corte, se l’imperatore Carlo V nel 1533, in occasione di un pranzo offerto dai Signori d’Este a Bologna, lo innalzò alla dignità di conte palatino. Il Messisbugo morì nel 1548, ma prima aveva scritto un vero trattato d’arte gastronomica, ch’egli aveva definito “Opera assai bella, e molto bisognevole a’ Maestri di casa, a’ Scalchi, a’ Credenzieri, e a’ Cuochi” cui aveva dato il titolo di “Libro Novo nel qual s’insegna a’ far d’ogni sorte di vivande secondo la diversità de i tempi, così di Carne come di Pesce”, dedicandola al cardinale Ippolito d’Este. Quell’opera tanto preziosa e più volte ristampata fu pubblicata per la prima volta un anno dopo la sua morte, nel 1549, ad opera di Giovanni di Bughalt e Antonio Hucher, stampatori in Ferrara e, successivamente, a Venezia.
Al professore interessavano le zuppe e si soffermò su tre ricette che gli parvero utili alla sua ricerca.
La prima era intitolata: Prima per fare una Suppa grassa. Diceva: Piglia fette di pane, e biscottale in una tiella nel forno, e poi che seran biscottate, piglia del formaggio duro grattato, e zuccaro, e cannella tanto che basti, e un poco di pevere, poi habbi buon brodo di cappone, o di carne, e metti il detto formaggio nel fondo del piattello, e così vanne mettendo sopra le fettelle di pane, a suolo, e del brodo medesimamente, e così di sopra, e essendo finito, la ponerai sopra le ceneri calde, con un piatto, fino a tanto che la vorrai mandare in tavola.
A questa ricetta, osservò il professore, manca solo la carne, ma ci sono le fette di pane biscottate in forno, il formaggio grattugiato e un buon brodo di carne di cappone o di manzo. C’è anche la composizione a strati e c’è la covatura, cioè un lento completamento della cottura sopra le ceneri ben calde, tenete calde dalle braci. Grazie alle sue tante letture, il professore sapeva che questa è una zuppa antichissima che risale probabilmente alle prime civiltà, poi costantemente ingentilita grazie all’evoluzione delle tecniche cucinarie, anche se, nella ricetta del Messisbugo, sembra d’essere agli esordi della cottura.
La ricetta, osservò poi il professore, prevede l’impiego delle spezie, in particolare pepe e cannella e anche zucchero, tutti prodotti allora costosissimi e vero status symbol della cucina aristocratica. I Duchi d’Este di Ferrara potevano ben permettersi questo lusso, attingendo alle spezie che allora arrivavano abbondanti a Venezia dai porti orientali.
La seconda ricetta che al nostro archeologo apparve interessante era di ascendenza francese e prevedeva la presenza della carne stufata, cioè cotta a fuoco lento in un tegame ben chiuso, molto simile alla covatura della moderna sòpa coàda. Ecco dunque la ricetta: A far suppa di capirotta francese. Piglia polpa di fagiano, o cappone, o pollastra, ovvero cima arrosto di longia di vitello coi pilotti (cioè lombata di vitello lardellata); e tutte queste cose pesta bene minutamente coi coltelli quanto è possibile. Poi piglia un poco di cannella pesta, e un poco meno pevere, e buon formaggio duro grattato; e mescola bene ogni cosa insieme. Poi habbi fette di pane bianco sottili, fritte nel dileguito (grasso fuso), e ponile nei piani a suolo, a suolo cioè della composizione sopradetta. Poi habbi buon brodo di vitello o di cappone, caldo, e gettalo sopra a queste cose e di poi stuffala con [sopra] un altro piatto sino a tanto che la vorrai mandare in tavola.
Questa è proprio cucina aristocratica, commentò il professore: serve del pane bianco, a quel tempo del tutto ignoto al popolo; delle carni di fagiano, cappone e vitello; del brodo di vitello o cappone; e ancora pepe e cannella, per cui non c’è dubbio che una zuppa di questo tipo non è certo un piatto per il popolo. Un piatto simile lo potevano fare solo nelle cucine dei ricconi, come erano appunto gli Estensi, dove c’era disponibilità economica, abbondanza di carni, soprattutto di caccia, appannaggio esclusivo della nobiltà, e ancora pane bianco e non bigio e duro come quello del popolo. E come se ciò non bastasse, osservò ancora, la preparazione di questo piatto esige un cuoco capace, un professionista e personaggi simili, capaci di lavorazioni complesse e di elaborazioni lunghe e attente si trovavano a quel tempo solo nelle case dell’alta aristocrazia.
Il professore si stava sempre più infervorando: ci stiamo avvicinando alla moderna ricetta, si disse, basterebbe fondere le due precedenti ed eccoci arrivati. E vi era arrivato anche il grande Cristoforo di Messisbugo, che, infatti, subito dopo dà la ricetta che l’archeologo sperava di trovare e che si intitola: A fare una suppa di pizzoni o pollastri.
Ed ecco il procedimento suggerito dal cuoco degli Estensi: Piglia fette di pane brustellate, poi piglia pollastrelli in quarti cotti arrosto e habbi una tiella [teglia] di pietra e mettili un solaro di fette di pane nel forno, con formaggio e zuccaro e cannella, e poi fa un altro suolo con detti quarti di pollastri sopra, con zuccaio e formaggio grattato e cannella, e poi piglia buon brodo grasso e ponilo sopra tanto che stia sotto e poi dalli un’altra mano di sopra di zuccaio e cannella e formaggio grattato dalli una caldetta nel testo e serà fatta.
Eccola, eccola, quasi gridò per la gioia il professore, ecco la prima ricetta della sòpa coàda. A quei tempi c’era grande uso di zucchero e spezie, ma se li togliamo da questo piatto, come si fa ormai da almeno due secoli e teniamo conto delle tecniche indicate nelle due precedenti ricette ecco la vera origine del nostro piatto. E in più, notò il professore, il titolo della ricetta ci dice esattamente che è da qui che sono derivate la sòpa coàda di Treviso, piatto cittadino che impiega i “pizzoni”, cioè i piccioni o colombi e quella della campagna mottense che invece impiega i pollastri o le galline giovani.
Aveva dunque risposto alla sua domanda e poteva considerarsi pago, ma un nuovo quesito, anzi due assalirono subito il professore. E come mai da Ferrara è arrivata in provincia di Treviso e poi ha preso il nome di un piatto tipico della Sardegna?
Alla prima domanda gli fu facile rispondere. Nel Cinquecento la letteratura gastronomica, i trattati di cucina e i ricettari vari venivano stampati, se non nella prima edizione, ma a cominciare dalla seconda, come per l’Opera del Messisbugo, nelle famose stamperie di Venezia. È facile capire che i cuochi veneziani erano al corrente delle tante ricette contenute in quei volumi e nelle loro cucine realizzavano quelle migliori o che ritenevano adatte ai loro padroni. La zuppa era a quel tempo un piatto presente ovunque e, di fronte a una elaborazione così interessante, come la suppa di pizzoni o pollastri, i cuochi veneziani l’avranno immediatamente fatta propria, visto che queste due carni erano a quei tempi molto ricercate e apprezzate.
E da Venezia a Treviso per la strada del Terraglio o risalendo il Sile e a Motta di Livenza, che era allora porto fluviale molto trafficato dalle barche veneziane, il passo è stato breve e rapido. E per il nome? A questo interrogativo aveva già dato risposta il gastronomo trevigiano nell’articolo che il professore aveva letto e conservato. Infatti, dopo aver citato la “suppa quatta” della Sardegna, quel gastronomo, Giuseppe Maffioli, così concludeva: Ora la “suppa quatta” che nasconde la polpa delle grive sarebbe diventata in un suo probabile trasferimento trevigiano, la “zuppa covata” per lenta cottura. Mi sono sforzato di ricercare se nella storia di qualche famiglia di trattori trevigiani ci fosse l’innesto di qualche piccolo ma generoso granatiere di Sardegna, ma non sono ancora in possesso di documenti inoppugnabili per suffragare la mia tesi, che mi sembra tuttavia molto credibile.
E anche al professore apparve tale, anzi, prese l’impegno di ripetere l’anno successivo il viaggio in terra trevigiana, per godere ancora una volta quell’antico piatto aristocratico, espressione fra le più riuscite e interessanti della grande cucina rinascimentale italiana.
ingredienti per 4 persone
4 piccioni
10 fette di pane raffermo
1 costa di sedano
2 carote
1 cipolla
brodo di carne
burro
formaggio Parmigiano grattugiato
vino bianco
preparazione
- Fate un trito con sedano, carote e cipolla e rosolate nel burro, in una casseruola capace da contenere i piccioni.
Aggiungete i piccioni bruciacchiati per eliminare eventuale peluria, lavati e tagliati a metà .
Rosolate e regolate di sale e pepe. - Bagnate con il vino bianco, fate sfumare e portate a cottura aggiungendo di tanto in tanto un mestolo di brodo.
Quando sono cotti, togliete i piccioni dalla casseruola e fateli raffreddare .
Spolpate la carne dalle ossa.
Fate ridurre a fuoco basso il sugo, facendo attenzione a non bruciarlo. - In una padella antiaderente sciogliete un po’ burro e rosolate le fette di pane.
- Prendere una pirofila, imburratela, fate uno strato di pane, aggiungete la carne di piccione, un altro strato di pane, lo strato con la carne di piccione fino completare: dovete terminare con la carne aggiungete il sugo ristretto e un paio di mestoli di brodo caldo.
Coprite con la carta stagnola e cuocete nel forno ventilato per 90 minuti a 150° C. - Levate la carta stagnola, cospargete con il formaggio grattugiato , qualche fiocchetto di burro e gratinate per 10 minuti sotto il grill .
Servire bello caldo accompagnando a parte, una tazza di brodo.